Una foto al giorno

Ogni giorno una foto, una foto al giorno

Quando vedo attraverso lo spessore dell’acqua le piastrelle sul fondo della piscina, non le vedo malgrado l’acqua e i riflessi, le vedo proprio attraverso essi, mediante essi. Se non ci fossero queste distorsioni, queste zebrature di sole, se vedessi senza questa carne la geometria del fondo piastrellato, proprio allora cesserei di vederla…
Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito.

La pagina di Facebook è un mosaico quotidiano, ci si orienta a colpo d’occhio, si sfoglia in fretta, si inseguono i titoli o le immagini come fossero persone. Il 28 ottobre 2009, fra le miriadi di finestre, sono apparsi colori saturi, geometrie inusuali, lembi di lenzuola. Tutto è cominciato con due uova, il burro rimasto sul coltello, la luce già livida di ottobre e le sue ombre. Poi si sono moltiplicate le finestre. Comincia un’abitudine legata al giorno e al calendario, fotografo e pubblico si affezionano, si cerca ostinatamente di mettere insieme fotografie e biografie. 3 novembre: una mosca al confine fra il vetro e le gradazioni di bianco del telaio di una finestra. 25 dicembre: una tavola imbandita, fatta di luce e di riflessi, il resto di un pranzo, le trame dei tovaglioli, il marmo, le trasparenze dei cristalli. 4 febbraio: impalcature, gru ed alberi sullo sfondo paradossale di un disegno architettonico imprigionano lo sguardo. 11 aprile, divano blu, si distinguono il velluto e le sue grinze. 4 agosto: inferriate ornamentali, mattoni e mura di paese si affacciano dai vetri aperti e chiusi delle finestre.

All’improvviso la data perde importanza e hanno il sopravvento i dettagli, le geometrie, i resti quotidiani, un enorme “avanzo” del giorno che l’occhio del fotografo ha composto sul supporto traslucido e retroilluminato dello schermo. Dalle date si sono staccati i particolari ravvicinati della ruggine incrostata o delle scorze nere del formaggio, le visioni dei colori dell’inverno, i giochi di ombre e di riflessi che spiazzano la visione piana delle cose. Una Canon G10 piccola e maneggevole e pochi scatti bastano a render visibile il mondo, a rivelarlo all’obiettivo come fosse un’inedita mappa. Il mondo-là- fuori si dà a vedere in ciò che generalmente viene ignorato: le cose si mostrano in pianta per rivelare la geometria di mobili e soprammobili; si ingrandiscono, per far emergere un paesaggio magmatico dalla corteccia di un albero; si ritagliano per dare a vedere di una finestra solo la sua cornice; aumentano la propria profondità per dare un tetto alle scale di ogni giorno; o si sfocano per allontanarci da un pavimento o avvicinarci al tessuto di una tenda d’altri tempi. In queste fotografie, come nelle vedute quotidiane di Eugène Atget, o nelle mele di Cézanne, si rivelano all’occhio i silenzi delle cose, le loro ombre, i loro riflessi, i colori, la loro posizione nel mondo. Dell’uomo rimane la traccia: rimangono le briciole sul tavolo di marmo, gli ornamenti delle carte da parati, l’ombra fortuita di un motorino, le impronte sulle lenzuola.

Stese sul tavolo, queste 365 tessere di mosaico si compongono in un’enorme carta geografica e permettono di immaginare, a colpo d’occhio “una terra, degli spazi, città e campagne che impiegherò del tempo a percorrere in un secondo momento” (Louis Marin) o che ho già percorso senza accorgermene. Si riconoscono le linee che l’occhio del fotografo sa vedere, o quelle forme e quegli oggetti che lo sorprendono, che gli vengono incontro da quella “soglia” che la “visione profana” generalmente non sa vedere. Perché le prospettive e le inquadrature di Sveva Bellucci non sono mai un occhio “imposto” al mondo, ma sono richieste dagli oggetti stessi: è il mondo stesso che si rivela attraverso finestre, riflessi, vetri appannati, tende sottili, scorci inediti, prospettive mai viste, paste di materia: è la vespa poggiata sul vetro che impone di sfocare il palazzo dietro di lei; è la luce straniante della luna e dell’elettricità che dà a vedere le colonne del Pantheon da sotto in su, presentandole maestose e imponenti come non mai.

Ci si deve continuamente “aggiustare” per guardare queste foto, perdere le proprie abitudini, farsi guardare dal mondo e imparare così a guardarlo di nuovo. Gli oggetti si trasformano, prendono forme inusuali: le sedie si impilano e disegnano linee, i limoni marciscono in sontuose nature morte, le scale diventano serrature, le bottiglie di plastica vetri di Murano. È la percezione visiva il soggetto principale di questi scatti: innestata nel mondo, nelle variazioni della luce, nella materia pastosa delle cose, nel tempo che scorre, nei movimenti impercettibili. L’acqua torbida del Tevere sembra diventare quasi solida per mettere in risalto cavi d’attracco e fili d’erba; l’accostamento di un melograno al vassoio decorato che lo contiene disorienta lo sguardo diventando un supporto alla fantasticheria; una finestrella quasi astratta, incassata nel muro, sembra esser fatta unicamente della sua luce. Percezione e luce, forse davvero il “primo e ultimo soggetto di ogni fotografia, in ogni epoca” (Michel Frizot).

Maddalena Parise