Trittici
«… è come se gli oggetti quotidiani fossero per lei sempre prigionieri dei ricordi. Possiedono una loro intimità, una storia che è il caso di narrare. Con uno scatto, Sveva entra nello spazio che li circonda per sottrarli allo scorrere del tempo e, appunto, alla dimenticanza: l’immagine cristallizzata – ieri un divano o un gesto, oggi una tazza azzurra e un cucchiaio somalo – crea una sorta di resistenza, anelata dalla fotografa e quasi necessaria, e ciò spiega la ragione per la quale il suo effetto è spesso emotivo e mai persuasivo. Nel corso di questi anni, osservandola di soppiatto e talvolta cercando di frapporre una certa distanza con il suo lavoro, mi sembrava di vederla inseguire qualcosa che fosse in relazione con il passato, cercando di conciliare fotografia e memoria. Inconsapevolmente è forse una operazione che compiamo tutti quando guardiamo una nostra fotografia; in Sveva però la memoria è forzatamente, inevitabilmente eteropatica. Dietro c’è il tentativo, a volte anche morboso o ansiogeno, di sentire come l’altro. Da qui il desiderio di isolare frammenti di vita immaginando l’uso che ne è stato fatto e i segreti che conserva, come se potessero parlare. Da qui proviene indubbiamente quella nostalgia che ci coglie ogni volta che posiamo gli occhi sui suoi scatti. Presi nel loro insieme, questi dodici ritratti delle giovani scrittrici, con i loro amuleti, pargoli e ammennicoli alimentari, con i loro luoghi considerati idonei per scrivere, formano un trittico che sa di scomposizione famigliare. Sveva pensava ad un gioco, pensava alla creatività, a scoprire la strada della scrittura. Sono i loro oggetti, sono i loro luoghi. Non gli ho scelti io, li ho solo fermati in un istante, mi ha detto un giorno, facendomi intendere che essi simboleggiavano il significato stesso del loro essere scrittrici. Questo è vero solo in parte. Il pericolo è quello di un gioco che si può fare all’infinito, perché tutto, o quasi tutto, possiede un’aura. Sveva con gli oggetti però lavora procedendo a ritroso: rintracciarne l’esistenza, svelarne l’usura e porgerli come possibilità di conoscenza, significa anche aver paura che ci abbandonino: le cose non si possono perdere, le cose non mi possono lasciare, è come se dicesse…»
Sebastiano Triulzi
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